28/11/2024

Le aspettative errate del profeta Elia sono anche le nostre.


 

È essenziale capire la differenza tra fede e credenza. La fede si basa su quello che Dio ci rivela di Lui, su quello che realmente Dio è. La credenza è invece ciò che io mi aspetto da Dio, ciò che suppongo che Dio sia. 
 
A volte qualcuno può pensare di essere radicato nella fede e invece è semplicemente radicato nelle sue credenze. Non ci basiamo sulla conoscenza di Dio, del Suo carattere, ma su ciò che ci aspettiamo da Lui, in accordo con le nostre credenze. 
 
Quando siamo angosciati vorremmo una esperienza di potere per fuggire da quell’angoscia, per eliminare magicamente il problema che causa l'angoscia. A volte ciò accade, ma molto raramente.

Il Vangelo non ci offre un esperienza di potere che faccia scomparire il problema, ma una rivelazione divina che ci permetta di sopportare l’angoscia. Il Vangelo ci sostiene, ci consola, quasi mai toglie il problema di mezzo. 
 
Se abbiamo una visione distorta di Dio e del Vangelo, saremo seri candidati alla frustrazione, perché riterremo sempre che Dio ci debba far scendere dalla croce, quando in realtà a Lui, spesso, interessa di più darci il potere e la forza per restarci. 
 
Il peggior momento nella vita del profeta Elia? Quando restò solo, in una caverna, depresso, deluso. Chi lo aveva deluso? Baal? Jezabel? No, Elia era deluso dal Dio in cui lui credeva. Dopo una grande esperienza di potere, Elia aveva l’aspettativa che questa esperienza di potere avrebbe cambiato per sempre le circostanze intorno a lui.  
Ma Dio voleva dargli invece una esperienza di relazione, che pur non cambiando lo stato delle cose, avrebbe trasformato Elia, gli avrebbe dato una conoscenza di Dio che lo avrebbe reso pronto per ogni evenienza futura, al di là di qualsiasi circostanza .

Non siamo stati chiamati per vivere esperienze straordinarie (non tutti). Non siamo stati chiamati per vivere la vita dell'apostolo Paolo o di Ezechiele, ma la nostra vita. Per vivere, al di là delle circostanze, favorevoli o meno, in obbedienza alla Parola, camminando in santità tutti i giorni, anche senza sentire nulla, anche senza avere l'opportunità di vivere esperienze straordinarie, senza poter vedere alcun miracolo pirotecnico. 
 
La Sua grazia ci basta. Oppure no?

Qoelet, riflessioni teologiche in tempi difficili by Matteo Attorre

27/11/2024

La dottrina dell’imputazione nell’Epistola di Paolo a Filemone.


 

Data e occasione.

L’epistola a Filemone è stata scritta dall’apostolo Paolo quando era prigioniero a Roma (circa 60 d.C.) ed è stata probabilmente inviata a Filemone insieme all’epistola ai Colossesi. Filemone abitava a Colosso, Asia Minore, era cristiano e padrone di diversi schiavi. Era ricco e manteneva una chiesa presso la sua residenza.

Uno schiavo di Filemone, di nome Onesimo, aveva rubato qualcosa ed era fuggito a Roma dove aveva appunto incontrato l’apostolo Paolo, il quale nella casa dove era ai domiciliari, predicava il regno di Dio ed insegnava le cose riguardanti Gesù Cristo (Atti 28:30-31).  Proprio attraverso gli insegnamenti di Paolo, Onesimo era diventato cristiano.

Lo scopo dell’epistola era, vista la necessità di correggere Onesimo per il suo antico errore, chiedere a Filemone che potesse accogliere nuovamente il suo schiavo, perdonandolo e ricevendolo, adesso, come fratello in Cristo.

L’apostolo Paolo capiva che il debito fatto da Onesimo doveva essere pagato prima che potesse esserci una possibile restaurazione.

Ma lo schiavo Onesimo non aveva alcuna possibilità di saldare il suo debito (dovuto al furto), e per questo l’apostolo Paolo nella sua epistola dice a Filemone:

Filemone 1:17,18

17 Se dunque tu mi consideri in comunione con te, accoglilo come me stesso. 18 Se ti ha fatto qualche torto o ti deve qualcosa, addebitalo a me.

 

Onesimo era uno schiavo fuggitivo, un ladro, un debitore, e quindi avrebbe meritato la morte quando rincontrato.  Secondo la legge in vigore, era un criminale degno di morte.

Dottrina dell’imputazione.

Con queste parole, l’apostolo Paolo, oltre a sviluppare il tema del perdono e della misericordia, vuole darci un esempio di che cosa significhi la dottrina della “imputazione”.

Imputazione significa “mettere sul conto di qualcuno”. Paolo sta mostrando ciò che Dio ha fatto per noi in Cristo Gesù. Così come l’apostolo Paolo si stava assumendo il debito di Onesimo, chiedendo a Filemone che mettesse il debito contratto dallo schiavo sul suo conto, allo stesso modo Gesù Cristo ha preso su sé stesso il debito che noi avevamo con Dio.

Nell’epistola ai Romani, al capitolo 5:12 c’è scritto che

per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato...

Il peccato di Adamo è stato imputato da Dio a tutta l’umanità, in quanto discendenti di Adamo.

Ma poi, il peccato dell’umanità è stato imputato da Dio Padre al Figlio Gesù Cristo. È stato fatto un trasferimento del nostro debito sul conto di Gesù Cristo.

Quindi, dopo che Dio aveva messo sul nostro conto il peccato di Adamo, attraverso Gesù Cristo, Dio registra il debito di Adamo ed il nostro sul conto di suo Figlio, Gesù Cristo.

Il debito è stato pagato.

Giovanni 19:30

Quando Gesù ebbe preso l'aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato il capo, rese lo spirito.

 

Furono le ultime parole di Gesù sulla croce: "tetelestai! È fatto!  Debito pagato! Padre non imputargli i peccati. Mettili sul mio conto!".

Abbiamo in cielo un nostro rappresentante, un avvocato che siede alla destra del Padre e quando pecchiamo, mostra i fori dei chiodi e dice: "Padre, ho già pagato io per lui! La Tua ira è già stata versata su di me."

Qoelet, riflessioni teologiche in tempi difficili, il blog di Attorre Matteo

 

 

LA CHIESA E LA MODERNITÀ: UNA SFIDA POSSIBILE?

    La riflessione odierna parte da un quesito che non so quanti si pongono: la chiesa attuale è pronta per le nuove sfide che la modernit...